martedì 24 novembre 2009

Come Gianni Morondi( nostro cantautore impazzito) scopre di essere Gianni Morondi. Buon divertimento.



DA ACQUA:
Viaggiatori

“Raccontare una notte e farlo quasi al buio, senza sapere dove va a sbattere la penna, sicura e pesante sulla carta, impazzita fra le linee.
Raccontare una notte perché è tante storie.
Molte notti sono uguali ad altre, alcune non sono uguali a niente, questa notte è tutta uguale.
E’ difficile, ma una notte tutta uguale bisogna capirla, invitarla, amarla, e ricordarla.
Una notte tutta uguale è speciale, sono le stesse voci dilatate nel tempo, le stesse storie che si ripetono. Anche la luna, sola nel cielo, sembra rassegnata, sembra aspettare che succeda qualcosa, una qualsiasi cosa, ma non capita niente, assolutamente niente.
Raccontare una notte tutta uguale è entrare nei suoi segreti, liberarsi dei propri, guadarla fissa negli occhi senza paure, e unirsi a lei, lentamente.
Che siano eterni questi momenti!
Io vedo le luci dei fuochi accesi per celebrare la nostra partenza diventare sempre più minuscoli e sento il bisogno di lasciare andare i pensieri attraverso questa notte tutta uguale e farmi accompagnare chissà dove, e il resto non esiste. Questa notte mi deve fare compagnia, ne ho bisogno, perché quello che è successo oggi ha dell'incredibile e solo una notte tutta uguale può abbracciare l'imponderabile.
Siamo partiti per questo viaggio, siamo diretti a Cuba, siamo incoscienti, siamo pieni di fiducia, siamo disposti a sacrificarci. Siamo gli eredi dell’umanità, i figli del fallimento, siamo gli eroi del dopo catastrofe. I degni viaggiatori di questa notte tutta uguale.
Ora ci aspetta Bologna… sono davvero curioso di vedere come si è trasformata la città felsinea, sono veramente entusiasta di questa avventura… della nostra nuova vita.

-Nota per me: questa potrebbe essere una specie d’introduzione, ma non penso che durante il viaggio mi limiterò a raccontare ciò che ci capita… guarda e osserva… poi rielaborerò tutto.
-Nota per gli avi: ricordatemi come il nuovo Erodoto… è giunto il mio momento.”

***

Come ho già accennato, la motivazione scientifica del perché dell'inondazione rimane tuttora una chimera da sfatare.
Anche se, a essere sinceri, la soluzione dell'enigma ormai non appassiona più come all'inizio: ha perso fascino.
Di ipotesi, di supposizioni ne sono state fatte a bizzeffe, partendo da quella più plausibile di uno scioglimento dei ghiacciai dell'Antartico, passando per quella spettacolare e rumorosa dello scontro fra placche terrestri, fino ad arrivare, scomodando la fantascienza, all'immagine luminosa di un'astronave che discende sulla terra e che spara un raggio rosso capace di comandare la materia e di far ribollire il mare.
Non c'è più tempo per le ipotesi, la sopravvivenza necessita di tutte le attenzioni possibili.
A Ferrara ormai quest'accettazione propositiva è diventata uno status quo condiviso dalla stragrande maggioranza della popolazione.
A Bologna invece, come avete sentito da Scorza Dura, le cose sono leggermente diverse: nell'ex capoluogo emiliano alcune dinamiche sono rimaste uguali, l'ordine è mantenuto, seppur a fatica, da un contingente schieramento di polizia capitanato dal sanguigno autoproclamato generale Della Vittoria e da volontari provenienti dalle più svariate realtà cittadine che di un nuovo mondo proprio non ne vogliono sapere.
Quindi anticipiamo i nostri, lasciamoli assopiti sulla zattera. Lanciamo un ultimo sguardo alle luci della felice Ferrara e spostiamoci nella più turbolenta e conflittuale Bologna.
A vederla dall'alto, sembra essersi trasformata in un ragno con le zampe a mollo nell'acqua.
Via Indipendenza è un delirio di tamburelli, arrostini, mangia fuoco, cantastorie, predicatori, imbonitori, un intenso aroma di zucchero caramellato misto a urina.
All'incrocio di via Saragozza una cinquantina di poliziotti in tenuta anti sommossa vigilano silenziosi.
Se ne stanno fermi, immobili.
A qualche metro un cingolato e due macchine dell’esercito.
Tra la folla vagano ansiosi e collerici decine di sgherri dalla milizia irregolare, mercenari di bassa lega che offrono il loro servizio per qualche favore, per del cibo, per avere un giaciglio sicuro.
Una camionetta dei carabinieri arranca sino a via Zamboni, taglia il caos, un punto nero nella variopinta tavolozza in contiuno movimento.
Sotto i portici di via Indipendenza i negozi sono stati chiusi. I commercianti hanno preferito buttarsi in strada, riempiendola, gonfiandola, dipingendola, soffocandola.
Nei paraggi della fontana del Nettuno un drappello di ragazzi balla in maniera scomposta.
Alcuni indiani bivaccano vicino a una bancarella di cesti in vimini. Ridono sonoramente mentre fumano da un enorme narghilé.
In piazza Maggiore, mille bancarelle, tappeti stesi per terra, gabbie con pappagalli gialli, verdi, rossi, gente che baratta di tutto, chiodi, lampade d’epoca, ricambi per auto, carote, patate, mele, vino di campagna, pane e olive, odore di salsiccia. Innumerevoli carrettini, appoggiati negli angoli delle piazze, agli incroci, nei giardini, disperdono un profumo speziato e spigoloso. Una capricciosa minaccia capace di ammaliare le narici.
Il mercato stabile, nato spontaneamente qualche giorno dopo la fine del mondo, ormai, copre tutto ciò che è visibile.
Le Due Torri sembrano essersi rinsecchite al sole, vegliano solitarie, silenziose.
Vecchie icone sopravvissute al disastro, rinate nel miracolo.
Attente e premurose, accompagnano la città in questa sua veste insolita.
Ed è proprio l’inusuale visione della Torre degli Asinelli conficcata in caos multicolore, in un delirio collettivo, ad accogliere Gianni Morondi, cantautore ben noto, in questo nuovo mondo.
Più o meno due settimane dopo l'inondazione si era risvegliato con un gran dolore alla testa e stranito aveva lanciato un'occhiata a un mucchio di libri e cd sparsi sul pavimento. Si era massaggiato la testa, dove, fra i capelli, si era incrostato il sangue.
Il sole filtrava dalle persiane abbassate, qualcuno gridava dall’angolo della via, dei canti striduli, una cantilena dondolante entrava gonfiandosi dentro la stanza.
Smarrito il Gianni nazionale si era alzato. Si era guardato intorno senza capire dove fosse. Assolutamente non si ricordava di quel posto.
Distrattamente aveva percorso quello sconosciuto stanzone, lisciandosi i capelli, ammaliato da quella melodia commovente.
Tremante aveva alzato le persiane lasciandosi inondare dall'immagine folgorante delle Due Torri illuminate da una luce gialla abbagliante, che sembrava volerle bruciare e da quella di piazza Maggiore interamente ricoperta da migliaia di mercanti rumorosi.
Le urla, una signora teneva un cesto di vimini sulla testa, gli odori, da una bancarella si alzava un nube densa, i colori, migliaia di facce che si sfioravano, lo avevano colpito come un fendente.
Stordito era tornato sui suoi passi, barcollando confuso era inciampato.
Strisciando sul pavimento si era rifugiato in un angolo buio e, come un bambino impaurito, si era messo a tremare.
Gli occhi si muovevano da destra a sinistra freneticamente, alla ricerca di qualche prova, di qualche indizio, di qualsiasi cosa gli potesse essere utile a capire cosa fosse successo.
E così aveva iniziato a farsi un miliardo di domande e, mentre cercava di rispondersi, notava dei microfoni, dei mixer, dei monitor di computer, un portatile abbandonato su un tavolo.
Aveva capito.
Era in uno studio radiofonico, a Radio Bologna: c'era una grossa scritta sulla parete che lo testimoniava.
Sì, adesso mi ricordo. Mi ricordo quel ragazzo con quei capelli all'indietro che mi faceva delle domande…
Si era lasciato scappare un sorriso soddisfatto, la memoria iniziava a funzionare.
Purtroppo era solo un abbaglio. In una manciata di secondi si era infatti reso conto di non avere la minima idea del perché qualcuno lo stesse intervistando.
Sarò un politico, un attore… forse sono un atleta o magari un cantante! Sì, forse sono un cantante, se sono in studio avrò a che fare con la musica. Aveva constato sconfortato mentre si toccava la testa che ancora gli doleva.
Più passavano i minuti più si capacitava di non avere molti ricordi a disposizione, di non conoscersi, di non ricordarsi nemmeno il suo volto, di sentirsi un estraneo.
Che sensazione strana! Irreale! Si ripeteva mentre se ne stava seduto a gambe conserte nel centro dello studio.
Finché, accigliandosi, aveva lasciato andare il suo occhio indagatore su quei libri, su quelle riviste, su quei cd sparsi un po’ ovunque, che fino ad allora non aveva considerato minimamente.
Come un felino ci si era tuffato, sperando di trovare in quel variegato miscuglio di informazioni, qualche appiglio per poter riconquistare la sua vita.
Aveva passato un giorno intero a leggere, a guardare le foto, aveva visto un certo Sting che gli piaceva parecchio e si era quasi convito che potesse essere lui. Tutto trafelato aveva cercato uno specchio e si era arreso all'evidenza di non aver niente a che fare con quel bell'imbusto dallo sguardo seducente. Aveva passato in rassegna centinaia di volti, ma niente da fare, non si trovava in quelle riviste.
Devo ricordare... cazzarola!
Si era riavvicinato alla finestra. Deciso aveva messo fuori la testa.
Per la seconda volta era stato assalito da quella sensazione amara che gli aveva oscurato la vista e che quasi l'aveva messo ko.
Questa volta, però, non aveva nessuna intenzione di gettare la spugna. Sarebbe rimasto lì in piedi, si sarebbe messo in guardia e avrebbe affrontato la situazione. Costi quel che costi avrebbe capito perché quel delirio di colori, di odori, di rumori lo stordiva in quel modo.
Quella sua decisione gli fece prendere coraggio e in un batter d'occhio una miriade di immagini della sua città iniziarono a riempirgli la testa, i giardini Margherita in autunno, le Due Torri che toccano il cielo grigio, le bancarelle di Natale sotto i portici di via Mascarella.
Bologna non è mai stata così, non è mai stata così! Non ci assomiglia neppure… aveva constatato.
Cos'è successo?
Aveva chiuso gli occhi e per un tempo inquantificabile era rimasto come sospeso in una dimensione tutta sua di probabili risposte.
Poi una sensazione piacevole aveva iniziato a crescergli dentro.
E quando decise di riaprire gli occhi non gli ci volle molto per rendersi conto di essere tremendamente attratto da quel nuovo mondo che gli sfilava disordinato sotto gli occhi.
Avrebbe voluto scendere, immergersi nelle profondità più remote di quel mistero variopinto che sembrava richiamarlo a sé.
Il cielo azzurro, una ragazza che si stava facendo disegnare con dell'henné dei fiori di loto sulla mano, un vecchietto tutto ossa che vagava con una carriola piena di cianfrusaglie, due preti che predicavano con gesti ampi, persone intente a mercanteggiare, a discutere, instabili tendoni della croce rossa, alcuni bambini che gridavano giocando con un frisby.
Quel miscuglio d'umanità lo affascinava, lo seduceva.
Gianni, però, aveva deciso che prima di mischiarsi con tutta quella gente avrebbe dovuto riconquistare la sua identità, perché era sicuro di avere dei numeri, delle qualità, delle potenzialità. Si era risvegliato con questa sensazione.
Doveva solo ritrovare i tasselli mancanti e tutto si sarebbe aggiustato.
Percepiva chiaramente che l'aria fosse impregnata di dolore.
Lentamente si era convinto che lui avrebbe alleviato quella sofferenza, di questo era sicuro.
Ma come? Cosa so fare? Se sono un cantante dovrei cantare! Ma cosa? Non mi ricordo una canzone… forse dovrei ascoltare della musica, ma non c'è elettricità… forse quel portatile che ho visto, magari ha ancora la batteria carica.
Si era avvicinato al computer, aveva alzato il monitor. Si era acceso.
Trepidante aveva aspettato la schermata iniziale, sul desktop c'era una cartella:
“Gianni Morondi: intervista di oggi”.
Cavoli, bingo, ce l'ho fatta! Ecco chi sono! Gianni Morondi! Che bel nome! Importante!
Ansioso l'aveva aperta.
C'erano un documento di testo e una foto.
Senza esitazione aveva cliccato sull’immagine.
Muoveva freneticamente la testa fra lo specchio e il monitor.
Compiaciuto, si era riconosciuto subito.
Poi aveva iniziato a balbettare. Un grugnito incomprensibile gli usciva dalla bocca, le guanciotte piene di perplessità.
Gli occhi languidi stavano fissi sullo schermo del portatile, immobili e indagatori.
Ma che cavolo è ‘sta roba? Sono in mutande… dove sono? Sembra uno studio televisivo… allora non sono un cantante, sono uno showman. Ma perché mi sono denudato in uno studio televisivo? Come mai ho fatto una cosa del genere?
Si era grattato sotto il mento, poi sotto l’orecchio destro.
Evidentemente avevo i miei motivi! Posso non ricordarmi delle cose, ma sicuramente so che non sono un pervertito o un esibizionista, quindi ci sarà una spiegazione!
In preda a una crisi mistica si era gettato a capofitto nel documento di testo, voleva andare a fondo alla questione, gli occhi scorrevano fra le parole:
“Il noto cantautore Gianni Morondi, che da quest'anno conduce la trasmissione Un sabato con gli italiani, ieri per alzare lo share della sua trasmissione ha deciso di esibirsi in uno strip-tease quasi integrale. In studio fra lo stupore del pubblico e l'imbarazzo degli organizzatori, il bolognese…”.
Mi sono spogliato per attirare il pubblico, sono un genio! Sono un cantante-conduttore-geniale!
Aveva proseguito la lettura e con gioia aveva accolto la notizia che in, effetti, in coincidenza del suo show, lo share era aumentato, quindi la trasmissione e lo spogliarello erano stati un successone.
Aveva sorriso contento, soddisfatto di sé.
Lo sapevo! Ero un cantante! Cioè, sono un cantante, certe cose uno se le sente! Ma non mi ricordo neppure una canzone: com'è possibile?
Così aveva riaperto quella foto che lo ritraeva in mutande a braccia aperte e si era portato le mani fra i capelli. Per un po' aveva cercato di ricordare.
Niente da fare... non mi viene niente. Magari nel computer trovo qualcosa.
Aveva scovato una cartella piena di mp3. Aveva passato in rassegna decine di nomi: Fabrizio De Andrè, Lucio Dalla, White Strike, Gianna Nannini, Francesco Guccini, i Dik Dik, i New Trolls, Antonello Venditti, Manu Chao, Luciano Pavarotti, Claudio Baglioni, gli Stranglers, ma di una sua canzone neppure l'ombra. Adirato aveva dato un pugno ad una porta.
Si era gettato a carponi fra i cd, ma anche lì, in quel mucchio disordinato, c'erano solo ed esclusivamente altri nomi.
E che cazzo, non hanno neanche una mia canzone! Che radio di merda è questa? Io sono Gianni Morondi, il conduttore-cantante-geniale, e se non trovo qualcosa qui scenderò in strada! I miei fans mi accoglieranno a braccia aperte! Loro conoscono la mia musica!
Ecco cosa avrebbe fatto: sarebbe andato alla ricerca di qualcuno che l'avrebbe fatto ricongiungere con la sua arte.
- Sì, è questo quello che devo fare - aveva ruggito con gli occhi infuocati, esultando.
Si era sistemato ed era sceso alla ricerca delle sue canzoni perdute.
Nel trambusto generale nessuno sembrava accorgersi della sua presenza, solo una vecchietta l'aveva fissato per un istante, lui le aveva sorriso ma l’anziana aveva proseguito per la sua strada.
Aveva sgomitato forte per arrivare vicino alla statua del Nettuno.
Sembra che nessuno mi conosca… forse dovrei...
In un lampo aveva iniziato a spogliarsi nell'incosciente speranza di attirare l'attenzione della gente.
Era convinto che quella fosse la cosa giusta da fare.
In televisione ha funzionato alla grande... c'era scritto chiaro e tondo in quell'articolo... quindi!
E così...
…Nel bel mezzo della piazza, fra tutta quella gente, fra ceste piene di spezie, di curry, di cumino, di paprika, di pepe, si era tolto prima la giacca, poi la camicia, aveva azzardato un colpo d'anca seguito da un sorriso compiaciuto, poi un passo di tango e via con la canottiera, finché, al momento di togliersi i pantaloni, un signore di mezza età gli si era avventato contro iniziando a spingerlo.
-Che cosa fai, pervertito del cazzo!- gli aveva urlato.
-Io non sono un pervertito, sono Gianni Morondi, il cantante! Il conduttore!
-E chi se ne frega, adesso la televisione non c'è più, quindi vedi di risparmiarti queste stronzate che qui non c'è da scherzare… e tagliati quella barba! Non mi piaci!
La mano del tizio l'aveva scaraventato per terra e lui affranto aveva iniziato a piangere, raggomitolandosi su se stesso come un riccio.
Era rimasto in quella posizione per alcuni minuti.
Poi...
-Dai Gianni, alzati!
Lui aveva aperto gli occhi.
Un omone con i capelli raccolti a coda di cavallo era sopra di lui, indossava una maglia amaranto.
-Tu mi conosci?- gli aveva domandato Gianni mentre si asciugava le lacrime e si rimetteva la camicia.
-Ma sì, ovvio…
-Allora, dimmi! Dimmi!
-Che cosa? Cosa devo dirti?
-Sono un cantante?
-Sì, certo che sei un cantante!
-E sono bravo?
-Bravo? Sai... cosa posso dire… garbi a molte persone.
-E a te?
-Beh, io ho gusti particolari… non rientri proprio nel mio genere. Ma hai fatto scuola, questo è innegabile.
-Ah… bene- aveva commentato Morondi con aria smarrita.
-Dai, su, alzati.
Scorza Dura aveva condotto Gianni da alcuni amici che stavano bivaccando in un parchetto dietro la Cattedrale. Il cantante era stato accolto con simpatia, una birra e un paio di colpi di spinello.
E lì, da quelle strane persone, aveva appreso cosa fosse successo al vecchio mondo, aveva ascoltato dell'inondazione e di come molte cose fossero cambiate. Aveva iniziato a bere.
Non sembrava essere scioccato, anzi, a dir la verità, dava l'impressione che tutto quello che gli venisse raccontato gli entrasse da un orecchio per poi uscire dall'altro.
Un ometto gli aveva offerto da bere un intruglio dall'incredibile retrogusto di cannella e pepe nero.
Tra un sorso e l'altro gli descriveva nei dettagli i nuovi confini naturali.
Poi aveva iniziato a parlare del Livorno calcio e a raccontargli di come tremila livornesi fossero rimasti a Bologna.
A Gianni, però, tutte quelle chiacchiere iniziavano a far venire il mal di testa, lui voleva solamente una cosa: ascoltare una sua canzone.
Così si era alzato, era salito su una panchina e, a gran voce, aveva chiesto:
-Sì, sì, blablabla… ho visto che Bologna è cambiata! Cosa pensate, che sia un rincitrullito? È diventata un'isola? Bene, meglio, a me piace il mare! E voi siete di Livorno? Beh, se non vi piace stare qui perché non ci tornate?
Un silenzio di sconcerto aleggiava nell'aria.
-Calmati! Vogliamo solo aiutarti- aveva ringhiato un ragazzo con i capelli rasati e la maglia della Banda Bassotti.
-Se volete aiutarmi veramente…- Gianni si era fermato un attimo e si era aggiustato la frangia che gli era caduta sul viso, poi aveva continuato: -Vi prego, cantatemi una mia canzone! Io non me ne ricordo una! Vi prego!
Scorza Dura aveva guardato i suoi compagni. Si erano messi in disparte e dopo qualche minuto erano tornati affermando sorridenti:
-Va bene, compagno Morondi, abbiamo deciso che te ne canteremo una tua.
Gianni aveva gli occhi pieni di gioia.
I livornesi avevano iniziato:

Una mattina mi son svegliato
O bella ciao! Bella ciao! Bella ciao ciao ciao!
Una mattina mi son svegliato
E ho trovato l’invasor

Gianni vedeva che negli occhi di quei ragazzi c'erano emozione e gioia.
Senza indugi aveva preso la bottiglia con l'intruglio alcolico e se l'era sgolata in un sol sorso.
La trachea era un trionfo di gusti.
Aveva ascoltato tutta la canzone e alla fine era scoppiato in lacrime, farfugliando:
-E’ bellissima, grazie! Grazie!
I livornesi lo avevano abbracciato divertiti.
Poi Gianni aveva detto:
-Adesso tocca a me!
Tutto eccitato aveva ricantato l'intera canzone, con armonia, con sentimento, senza sbagliare una parola, come se realmente fosse stato lui a scriverla, come se gli appartenesse.
Mentre Gianni cantava per la quinta volta Bella Ciao, Scorza Dura aveva guardato i compagni con aria perplessa.
Cazzo, mi sa che abbiamo fatto una gran stronzata!
Aveva pensato il capo delle BAL, continuando a ripeterselo anche dopo, mentre rientravano alla tana, al quartiere occupato.

martedì 10 novembre 2009

SINOSSI E DUE NUOVI ESTRATTI. SUGGESTIONI ACQUATICHE.


SINOSSI
La ballata del tocororo (o della rivincita dei sud del mondo)
Un esemplare di tocororo, uccello sacro, simbolo di Cuba, solitamente stanziale, è stato avvistato inspiegabilmente a Ferrara. Federico, giovane ornitologo alle prese con una burrascosa e drammatica storia d’amore e Pasquino, vigile urbano che sogna di fare lo scrittore, vedranno la loro vita intrecciarsi a quella del colorato pennuto caraibico, proprio mentre il vecchio mondo sta per finire. Distrutto. Sommerso.
Ferrara è stata trasformata dalla catastrofe in un’isola, è rimasta senza elettricità e acqua corrente, e i suoi abitanti sopravvivono grazie al baratto. Incalzati da un capo ultra livornese che in sogno ha avuto la visione di riportare il tocororo a Fidel Castro per ricongiungere tutti i pezzi di quell’umanità dilaniata scampata alla catastrofe, Pasquino e Federico partono sulla zattera "Erodoto" verso est, seguendo i venti, come antichi esploratori.
Durante questa odissea i tre incontrano pirati corrotti, guarnigioni di sanguinari curdi, clandestini trucidati, marines esaltati che bivaccano in una caserma nel deserto, spacciatori colombiani, amazzoni tailandesi che torturano ex clienti e governano un atollo, personaggi dello spettacolo che si mangiano fra loro, un sadico generale a capo di un esercito irregolare di skinhead, fascisti di vecchia data, militari smarriti, ex poliziotti picchiatori, violentatori, mercenari tantrici, e un famosissimo cantautore italiano che ha perso la memoria ed è diventato un menestrello alcolista.
Una guerra campale, il conflitto di sempre. Il bene contro il male, i rimasugli dell’orrore del vecchio mondo contro le speranze di chi è deciso a non cedere ancora.... Visualizza altro
Una ballata scritta a quattro mani, un gioco letterario intriso di humor, avventura, azione, sangue e amore. Un’opera sorretta da più fili narrativi, capace di amalgamare e fondere strutture tipicamente cinematografiche ai crismi del romanzo.

I DUE NUOVI ESTRATTI. SUGGESTIONI ACQUATICHE FRAMMENTI DALLA SECONDA PARTE DELLA BALLATA.
(1)
Un caldo insopportabile avvolge il centro deserto. Piazza Trento Trieste, spoglia e afosa.
Due uomini si rifugiano sotto i portici dove una volta c’era il Mc Donald’s ormai diventato una specie di bettola-dormitorio gestita da una coppia di norvegesi, arrivati qui durante il Festival dei Buskers. Travolti dall’acqua, sono condannati a sopravvivere alla fine del mondo.
Lui è alto, magro, con i capelli gialli e lunghi. Ha occhi azzurri, intensi. Parla, senza interruzione, un italiano incerto. Blatera. Impreca.
La moglie, Mercedes, ha sempre un bicchiere di vino in mano, non si scompone mai, nasconde il viso dietro lunghi capelli scuri, fuma continuamente, ascolta il marito, sospira.
La bettola è sovraffollata. Al piano terra, ai lunghi tavoli, siedono decine di uomini sporchi e assonnati. Ogni tanto qualcuno si alza stancamente e va ad immergere il bicchiere in una grande bacinella di plastica, dove c'è una bevanda composta da diversi vini di scarsa qualità: un goccio di alcool puro, acqua piovana e zucchero. Non è un granché, ma stordisce e si può barattare con qualche sigaretta, un pezzo di pane. I norvegesi sono persone che si accontentano.
Alle pareti sono stati appesi poster di spiagge tropicali, un ritratto di Nelson Mandela, uno a china di Maradona. I poster coprono le vecchie insegne del Mc Donald’s: la costa di Cancun è affiancata dalla sagoma di un grande cheeseburgher.
In via Coromari dei bambini stanno prendendo a pallonate la saracinesca di un negozio d'abbigliamento abbandonato ormai da mesi. Dalla finestra sovrastante una vecchia si affaccia e inizia a gridare. Con la testa insaccata fra le spalle se ne vanno senza protestare. Arrivano dietro all’angolo, traccheggiano scambiandosi sguardi complici. Il rumore del richiudersi dei battenti scuote il silenzio. Sghignazzando tornano di gran carriera.
Riprendono il loro rumoroso gioco.
Folate d'aria fresca trasportano il gracchiare costante delle cicale e l’odore del mare.
Chissà quanto tempo è passato da quel tramonto apocalittico che ha trasformato per sempre il paesaggio terrestre dando all'acqua il predominio sulla terra? Da quanto il sole ed il caldo hanno sostituito la nebbia e il freddo? Da quanto mancano elettricità e acqua corrente?
Qualcuno afferma che, ormai, è passato un anno; altri puntano al rialzo.
Ognuno ama dire la sua anche se, negli androni dei palazzi, sotto gli ombrelloni delle spiagge che attorniano le Mura, mentre si tirano su le reti nel porticciolo di San Giorgio o ci si beve un bicchiere di vino in un qualche baracchino del centro, l'innegabile verità condivisa è che nessuno guarda più l'orologio.
Il tempo ha perso la sua consistenza.
Ormai, non si fa neppure caso al sole che, a volte, sembra non voler calare più o alla luna che, nelle svariate apparizioni rimane lassù a brillare sopra al mare blu intenso.
Lentamente ci si è abituati anche all'incredibile.
I ferraresi, dapprima, hanno assistito al sotterramento della loro pianura, poi hanno accolto il mare che ora, calmo, accarezza la cinta muraria.
Chi è sopravvissuto ha preso possesso delle case dei morti. Chi non ha avuto da mangiare ha saccheggiato i supermercati. Chi non ha avuto legna ha bruciato i mobili e i giornali delle edicole. Chi aveva qualche conto in sospeso l'ha prontamente saldato.
Sono successe tante cose, ma non è questo il momento di parlarne.
Da uomini stantii di pianura, contadini per vocazione, gli eredi della tradizione estense si sono rimboccati le maniche ed hanno iniziato la loro nuova vita, ognuno con un nuovo sogno, un nuovo desiderio.
Bramosi di rinascere nel nuovo mondo hanno fatto di necessità virtù.
Molti si sono costruiti rudimentali catapecchie nautiche e si sono dati alla pesca.
Chi, invece, ha recuperato le imbarcazioni ormeggiate nella Darsena ed è partito nel vano tentativo di essere ricordato come il nuovo Marco Polo, si è reso conto che intorno a Ferrara c'è solo mare, solo ed esclusivamente acqua, un infinito oceano di dubbi.
A dire il vero un altro centro di rilievo salvatosi dall'inondazione c'è: Bologna.
Ma di quel che è rimasto dell'ex capoluogo emiliano vi dirò poi.
Adesso concentriamoci su Ferrara.
Il caldo tropicale, prepotentemente aggiuntosi alla lista degli eventi inspiegabili, ha trasformato velocemente la vegetazione della città.
Il verde spontaneo cresce ovunque.
Le acque sono rivestite di mangrovie, mentre le rive sono ricoperte di arbusti sempre verdi. Sono spuntate miracolosamente piante di mirto e di corbezzolo, anemone, fiammole, ranuncole asiatiche, peonie, papaveri, un mix lussureggiante di rosso, giallo, bianco, viola. Nei paraggi del parco Massari alcune palme da dattero. Timo e cisto spuntano nelle crepe dei marciapiedi, nei solchi lasciati dalla fine del mondo.
Ferrara, oasi pacifica, brulica di porticcioli, di mercati all'aperto, di vegetazione tropicale, di luoghi dediti allo scambio di merci, di cittadini che, ormai perso qualsiasi rapporto con il denaro, vivono barattando di tutto, dal pesce essiccato, alla frutta, ai semi, al pane, alle spezie.
Antichi centri di aggregazione come piazza Ariostea e i bastioni delle Mura sono stati rivalutati e hanno ripreso la loro originaria funzione di spazio collettivo.
Il fatto che i Buskers siano rimasti qui, costretti dall'inondazione, ha trasformato le notti ferraresi nel palcoscenico ideale per kermesse musicali infinite, di spettacoli teatrali, di performance varie.
Ferrara, superato il lutto, sembra essere diventata una cittadina felice, rinata.
Nel rione di San Giorgio parecchie case sono state imbiancate per far filtrare meno i raggi del sole.
I balconi sono adorni di licheni, rose, cantanuche, caerule dall'ammaliante colore azzurro, gladioli porpora e narcisi. L'aria è viziata dall'odore intenso di pesce alla griglia.
Dalla corte di un palazzo dilaga un'armoniosa melodia nord-africana accompagnata da parole strozzate, trattenute, e dal soffice rimbombo di alcuni tamburelli.
Corso della Giovecca brulica di bancarelle di pannocchie, di pollo cotto alla brace e insaporito con succo d'arancia, di pane fatto in casa e di improvvisati gazebo che garantiscono ombra ai bancali colmi di marmellate di pomodoro, fragola, melone.
Negli androni delle case ci si ritrova per chiacchierare, per giocare a carte, a dadi, o per sonnecchiare al riparo dal sole.
Decine di barchette pescano vicino all'atollo di San Giorgio, dove il campanile della chiesa emerge fra acque cristalline e dove nuotano pesci argentati e tartarughe giganti.
A bordo di un'esile imbarcazione che oscilla piegandosi sul lato destro, il vecchio Saverio Arnolfi, con un gesto ampio delle braccia, fa roteare in aria un amo.
All'improvviso, con un colpo secco, lo scaglia verso l'azzurro. Il silenzio viene tagliato, per un secondo, da un suono stridulo. Poi un impercettibile tonfo, l’acqua increspata. Dei piccoli pesci dal colore grigio bruno si dileguano velocissimi, spaventati dall’inaspettata intrusione.
Il sole illumina la loro scomposta fuga.
Il partigiano è in compagnia di due giovani sgherri dalla pelle olivastra che, a bordo della minuscola barca, si muovono con disinvoltura. Uno dei pesci perde l'orientamento e si avvicina alla prua, il partigiano lo nota. Cede la canna da pesca a uno dei suoi compagni, poi quatto quatto si avvicina a quella minuscola figura che vaga solitaria a pelo d'acqua. Sgrana gli occhi. Un'espressione di sconforto gli si dipinge sul volto.
Sconfitto gira la testa verso l'esigua ciurma, in un'evidente richiesta di aiuto. Con uno scatto gli si affianca Primo, il più vecchio dei due, si appoggia leggiadro al vecchio e si sporge verso l'acqua. Sorride, soddisfatto, poi afferma sottovoce e con fare confidenziale:
-È un ciclide dalla bocca di fuoco.
-E come lo riconosci?
-Vedi la parte inferiore della bocca e del torace? Sono rossi e ha una macchia scura sia sull'operacolo che sui lati.
-Ma Primo, tu ne sai una più del diavolo! Come fai a ricordarti tutte queste cose?
-Passione! Sono nato in mare.
-Sì, va bene, ma fino ad un anno fa non è che a Comacchio ci fossero dei pesci del genere!
Primo diventa serio, gli occhi gli s'increspano, il viso gli si allunga in una smorfia che sembra quella di un bambino qualche secondo prima delle lacrime.
-Scusa, mi dimentico sempre di…- balbetta il partigiano Arnolfi.
-No, non fa niente… è che quando sento quel nome mi viene da piangere.
-Ti capisco, anche io ho perso mio figlio e della mia famiglia mi è rimasto solo un nipote, devi essere forte!
-Sì, lo so. Ma mi mancano- conclude Primo.
I due si abbracciano, poi il comacchiese aggiunge:
-Se vuoi ti dico anche qualcosina in più! Il ciclide dalla bocca di fuoco bazzica nei corsi d'acqua del Guatemala e dello Yucantan.
-Perbacco! Ne hanno fatta di strada questi pesciolini!
-Sì, direi!
-Beh, allora lasciamo stare queste bestiole che, dopo un viaggio così lungo, avranno voglia di farsi i fatti loro!
L'altro ragazzo senza scomporsi fa su l'amo e infila i remi nei loro scalmi.
Saverio è seduto a prua, ciondola da destra a sinistra, ai suoi piedi il sacchetto nero ove suole sistemare il pescato.
Davanti, la torre di San Giorgio, le imponenti Mura.
I due ragazzi remano energicamente.
I colori dei panni appesi, delle porte, delle case si fanno sempre più riconoscibili.
Dietro alla barca, una smussata linea retta taglia dolcemente la piattezza argentea che li divide dalla terra ferma.
Arrivati all'attracco di via Porta Mare, Saverio, con un nodo, assicura la sua barchetta a un enorme pezzo di metallo verde ormai scrostato e arrugginito, dopodiché, si rialza.
La luce del sole lo acceca per un istante. Infastidito si strofina gli occhi poi, con aria serena, fissa, come ogni giorno, l'orizzonte calmo.
Immobile, avvolto nella sua silenziosa quotidianità.
Sorride, non avrebbe mai pensato che sarebbe riuscito a coronare il suo sogno più recondito, che il desiderio di vivere a stretto contatto con il mare sarebbe diventato realtà. Lui, amante dei classici del mare, che da sempre portava invidia ai Capitani coraggiosi e a Lord Jim, adesso si trova a vivere come loro, a provare le loro stesse sensazioni, a pensare come loro, ad essere un lupo di mare.
Ex combattente partigiano ora astuto marinaio… che evoluzione.
Il cielo è azzurro, qua e là alcune nuvole immobili tagliate, di continuo, da gabbiani che volteggiano liberi.
L'aria calda gli accarezza il volto.
Sembra ringiovanito, ha la pelle olivastra e i capelli leggermente lunghi tirati all'indietro. Con aria sicura si tiene ben saldo alla stampella, muove passi netti, chirurgici.
Tra le barche ormeggiate nel porticciolo, ne nota una che non aveva mai visto: una zattera di legno di medie dimensioni battente una strana e sgualcita bandiera color amaranto.
Rimane imbambolato a studiarla: è composta essenzialmente da una base di tronchi legati fra loro da possenti corde, da un albero maestro alto almeno tre metri e da una piccola e graziosa cambusa coperta da fascette di bambù e da frasche.
All’interno, attaccato sopra alla provvisoria e scarna cucina, un poster di Che Guevara.
Il vento trasporta delle urla che prendono la consistenza di una cantilena costante.
Sulla via Porta Mare c’è il mercato del pesce.
Primo gli tocca la spalla. Saverio lancia un'ultima occhiata verso la cima dell'albero. Un soffio di vento smuove il vessillo amaranto. Nella speranza di carpire qualche indizio in più, si acciglia, sgrana gli occhi, riesce a distinguere uno strano simbolo: delle lettere che si attorcigliano, sembra uno stemma di una squadra di calcio.
Boh, chissà! Comunque! S'incammina verso il mercato.
Si mischiano al caos. Lui nel mezzo, la sua ciurma che lo scorta.
Grida acute, due donne che s’adoperano dietro ad un bancale pieno di frutta secca, un mendicante è appoggiato ad un sacco pieno di granturco, odori intensi, un vecchietto osserva inebetito alcuni fiori blu, sospira, poi sorride soddisfatto, si fruga nelle tasche dei pantaloni ansioso di portare con sé quell’incredibile regalo della natura.
Sgomitano fra la calca, avanzano fra la ressa in subbuglio. Un uomo con due denti d’oro sgranocchia una carruba, poi starnutisce, Saverio evita gli schizzi di saliva.
Arrivano sino al banco di una baracca gestita da un minuto cingalese.
Saverio butta sul pianale il sacco nero. Il cingalese lo apre ed inizia ad estrarre dei merluzzi di media grandezza, li conta soddisfatto tenendo lo sguardo fisso su i tre. Ha due enormi occhi neri e una pancia che sembra un cocomero.
-Sette buoni e due malati- sentenzia.
-Sono tutti buoni, fammeli vedere i malati!- controbatte Saverio.
-Questo ha lische molto scure, non è buono e questo anche.
-Tutti i giorni ti inventi una malattia nuova, non ci provare Masos! Ormai lo abbiamo capito il tuo giochetto! Dacci quello che ci spetta e falla finita!
Il cingalese esita un secondo, si aggiusta il colletto della camicia color ocra, lascia che due gocce di sudore gli arrivino sino al mento poi si china, scomparendo sotto il bancale.
Quando ricompare ha in mano tre sacchetti di carta e una bottiglia di vetro, sorridendo:
-Duecento grammi di riso, sei stecche di cannella, cento grammi di fagioli per uno e una bottiglia di vino da dividere.
I tre si guardano, poi, con un cenno del capo, acconsentono.
Felici per l'affare concluso si portano nei paraggi dell'ex bar Stella ora diventato una delle bettole di porto più battute.
Le pareti esterne sono quasi interamente coperte da graffiti che ritraggono i nuovi simboli di Ferrara: il mare azzurro che avvolge la cinta muraria ricoperta di fiori; il Castello addormentato fra le palme, i teloni tirati da un estremo all'altro delle strette vie del centro storico per assicurare ombra a tutti e il tocororo, appollaiato sul ramo della secolare quercia da sempre al lato della casa del Boia, che guarda verso est.
All'interno del locale, sistemati malamente e abbandonati al loro destino, vecchi sgabelli e tavoli di legno che ormai hanno perso colore. Il pavimento è coperto di pezzi di pane, cicche di sigarette, noccioli d'oliva, macchie d'unto.
Il tetto è sorretto da travi di ferro verde dall'aria instabile. Le pareti sono zeppe di sgualciti poster di film degli anni ’80, della Madonna, della vecchia Ferrara immersa nella nebbia e del Capitano Acab con la sua pipa in bocca. Sui tavoli, su claudicanti mensole, sono appoggiate candele e vecchi candelabri, unica garanzia di luce quando il sole cala nel mare-oceano.
Dietro al bancone un ometto dai lineamenti vagamente simili a quelli del sopra citato eroe dei mari si sta fumando un interminabile sigaro. Beve un sorso della sua birra sgasata, una porcheria di fabbricazione domestica.
Intorno, avventori che giocano a domino, altri, stretti in cerchio, cantano canzoni battendo le mani a ritmo serrato.
Saverio baratta con il barista le sei stecche di cannella per un piatto d'insalata di pomodori e mezza pagnotta. I suoi compagni riempiono tre bicchieri di vino.
Due energumeni stanno litigando a voce alta vicino alla porta d’ingresso, all'improvviso uno di questi estrae la pistola e la punta verso l'antagonista che, sconfortato, arretra.
L'uomo che impugna l'arma si muove sicuro, ha gli occhi iniettati d'odio.
Silenzio.
Nel bar tutti osservano la scena senza intervenire.
Saverio appoggia il piatto di pomodori al bancone e rimane immobile.
L'uomo punta la canna della pistola alla tempia dell'altro, si avvicina.
Gli sussurra qualcosa.
Qualche goccia di sudore compare sul viso dell'aggredito che deglutisce vistosamente e infine gira la testa facendo un cenno in direzione di Saverio.
L'energumeno armato lo squadra.
Muove i primi passi verso il vecchio Arnolfi.
Il partigiano, impietrito, non riesce a far altro che afferrare la sua stampella.
Quando ormai sono vicinissimi, Saverio nota che sulla maglietta dello sconosciuto c'è impresso lo stesso simbolo che aveva intravisto sulla bandiera di quella misteriosa zattera.

(2)
Brunello, immobile di fronte alla sua, un tempo, remunerativa attività, guarda le vetrate infrante del panificio. Incapace di rassegnarsi al terribile scherzetto che la crosta terrestre ha fatto al genere umano.
Un topo rosicchia un cesto vuoto.
All'interno del panificio c'è solo polvere, bancali distrutti, macchinari arrugginiti. Da efficiente e stimato laboratorio artigianale ora è un ammasso di ruggine, muffa, odore stantio.
Guarda passare due ragazzini a torso nudo. Stanno blaterando qualcosa sulla folla che si è accalcata alla casa del Boia. Si trascinano dietro un carretto pieno di cartoni e cianfrusaglie arrugginite. Li guarda con odio. I ragazzini gli fanno montare il sangue alla testa. Erano soprattutto adolescenti i mostri che nei giorni dopo l'inondazione hanno saccheggiato il panificio, lo hanno gettato a terra e preso a calci mentre cercava di difendere le pagnotte e le coppie di pane dalla fame della folla. C'era anche quel negretto. Si infilava il pane nelle tasche e sorrideva. Brunello ricorda quelle facce odiose, boriose. Vede le facce che mordicchiano il pane.
Sputa di nuovo in terra ed entra nel locale. Dei moldavi cenciosi dormono a terra. Ormai non può più fare niente per difendere la sua proprietà. A Ferrara l'ordine è annegato insieme alla sua periferia. L'anarchia e il disordine fomentano e fomentano. Ferrara come Gomorra. Il panettiere non può più tollerarlo e la sua rabbia si trasforma in silenzio, sputi, sguardi rancorosi e pieni di violenza.
Nella testa di Brunello è in atto una trasformazione interiore. Non c'è più Marla, scomparsa nel nulla. Non c'è più il gatto. Sorride a pensare a quello stupido quadrupede. L'unica cosa che ha apprezzato del disordine è stato vedere quel gattaccio sgozzato e fatto arrosto. Era stato l'unico momento in cui si era donato alla folla; aveva anche mangiato una coscia di Napoleone e ne aveva riso.
Cambiare, andare, allontanarsi da questo terribile inferno anarchico.
Questi sono i suoi pensieri.
Qualcuno gli ha riferito che a Bologna è rimasto l’ordine. Quel vice questore Della Vittoria che riempiva i notiziari locali con le sue gesta, con gli sgomberi e le retate, è ancora lì, nel capoluogo felsineo.
Se lo immagina: alto, fiero nello sguardo, sicuro e rassicurante nelle movenze e soprattutto lontano anni luce dalla vigliaccheria dimostrata dalla polizia locale che si era subito arresa al disordine.
Ferrara era facile da controllare quando la tranquillità del benessere teneva tutti chiusi in casa e per la città vigeva una sorta di omertosa sottomissione nei confronti della polizia.
Adesso sì che ci vorrebbe il polso duro, ma evidentemente, nei paraggi, non c'è nessuno all'altezza.
A Bologna, invece, quel vice-questore e il suo personale esercito resistono, l'ordine è ancora possibile.
Un uomo così non può scappare... non deve!
Brunello guarda ancora i moldavi dormire.
Un uomo come me può essere utile all'ordine. Obbedire e combattere. Questo mi ha detto il Duce, pensa, mentre infila la mano nello zaino a tracolla.
Trova il medaglione, lo afferra, con un gesto deciso lo alza, tenendolo fra l’indice ed il pollice, come fanno gli arbitri dopo aver estratto il cartellino.
Si avvicina a un moldavo.
Non lo ammonisce, espulsione diretta con un bel calcio nello stomaco. Il poveretto si alza in piedi gridando, l’ex panettiere senza indugi gli assesta una ginocchiata nelle palle.
Disgustato, sputa in terra e esce dal locale.
Rimette in tasca il suo inseparabile medaglione e inizia a marciare, verso sud, verso l'ordine, verso quel suo vecchio mondo che tanto rivuole.
Davanti, il sole che tramonta gloriosamente.

mercoledì 4 novembre 2009

Altri estratti della LA BALLATA DEL TOCORORO (o della rivincita dei sud del mondo).


Brunello: il panificio Centrale

Alla radio Paolo Conte sta cantando le prodezze di Bartali. Brunello impasta e sbuffa.
Piccolo e tozzo, con capelli nero-bianchi tirati all'indietro, una brillante pettinatura assicurata da una patina di gel. Sostanzialmente un uomo peloso.
Il laboratorio è silenzioso. Dalla finestra, lievemente aperta, provengono le voci della strada.
Ragazzi in vena di urlare... bella vita i giovani, loro sì che se la spassano, pensa, continuando il suo lavoro. I muscoli delle braccia tesi.
Fa caldo. Brunello si asciuga il sudore della fronte con la manica della maglia consunta.
Anche il culo extra tocca farmi! La focaccia pomeridiana! E lei? Lei se ne va in giro a fare compere... stronza! E questo qui cos’ha da cantare? Bartali... Bartali... ma va a cacare!
-Era un coglione, meglio Coppi! Va bene?- dice Brunello rivolto alla radio.
Con la mano sporca di farina gira la manovella dell’apparecchio. Una rumorosa cacofonia di suoni rock, una trasmissione religiosa, le previsioni del tempo. Gianni Morondi canta Bella Lucinda. Brunello fischietta il ritornello e segue con beatitudine la performance canora fino all’ultima nota.
Mi piace Gianni Morondi... è un brav'uomo, uno d'altri tempi.
Inizia il giornale radio. Brunello dà una sonora pacca sulla superficie della sua gigantesca palla d’impasto.
-Buongiorno amici radioascoltatori! Sono le sedici e queste sono le notizie del giornale flash:
Il Governo ha disposto nuovi fondi per la costruz…
Brunello si disinteressa e inizia a fare delle palline strappando lembi dalla massa uniforme, che ha impastato con voga.
Chissà dov’è quel gatto fifone… adesso che Marla è fuori potrei divertirmi con quello stupido quadrupede…
-Micino? Micino?- ringhia Brunello come un rotwailer sadico.
Oggi è padrone della sua prigione. Ha il forno tutto per sé. Una gioia idiota si impossessa della sua mente, dei suoi muscoli.
Vai vai… vai pure a comprarti i vestiti... vai a comprare costosi bocconcini di pesce per il gatto... vai in giro a sperperare i soldi mentre io qui mi faccio il mazzo. Non assumere un aiutante, no! Continua a comportarti da egoista... maledetta... tu e il tuo costosissimo gatto.
Brunello tira su con il naso e inizia a disporre le palline d’impasto in una teglia unta d’olio.
-…un’esplosione nel centro di Kabul ha causato la morte di tre persone e...- annuncia il giornalista alla radio.
Stacca un nuovo lembo dalla massa uniforme.
Cosa vuoi che siano tre morti e poi se la sono voluta: mettono bombe sugli aerei, sui treni, cosa pretendono? Cosa vogliono? Un premio?
Prende la paletta e raschia via un grumo di pasta secca dal tavolo di marmo.
Sospira, si guarda intorno, prende conforto dalla vista dai suoi apparecchi di lavoro che da anni incorniciano tutte le sue giornate.
-…a Bologna, questa notte, è stato sgomberato lo stabile di via Zanardi 78, occupato da diversi mesi da famiglie di extracomunitari. Il vicequestore Della Vittoria, a capo dell’operazione, ha dichiarato che durante lo sgombero è stato arrestato un cittadino marocchino senza permesso di soggiorno avvicinabile all’area del fondamentalismo islamico…
Brunello indica la radio borbottando:
-Bravo Della Vittoria! Fate piazza pulita di quella sporcizia umana che ci sta invadendo! Siamo prigionieri nella nostra patria!
Dovrebbe venire da noi il vice-questore, per cacciare a pedate il negretto che è venuto a vivere al terzo piano, pensa accigliandosi. Infine si dirige verso il forno e guarda con attenzione come procede la cottura delle focacce al formaggio.
-…e ora veniamo alle notizie sportive…
Alza la testa.
-...è andata male alle italiane in coppa…
Si concede una smorfia compiaciuta, spegne la radio e torna al suo tavolo da lavoro.
Odia e ama quest’ambiente. E’ una sensazione strana che, nella sua rozzezza di spirito, non sa spiegarsi. Si gratta la pancia con le mani impastate, se le passa sul viso rigandoselo di farina e pasta molle. Ridacchia.
Si sente un soldato, un lagunare, un eroe della brigata Sassari.
Mi mimetizzo, operazione forno…
All'improvviso sente un'energia strana.
Di scatto si gira verso la finestra che dà sul giardino interno e vede Napoleone.
Eccoti, pensa pronto ad agire.
Il felino, musetto appiccicato al vetro, inizia a miagolare, a strusciarsi.
-Gatto bastardo!- urla Brunello, con le vene del collo che gli si gonfiano e gli occhi totalmente aperti, quasi dovessero saltar fuori dalle orbite.
Il panettiere afferra due palline d'impasto e le tira violentemente.
L'eco dell'impatto scuote il laboratorio. Per un istante il panettiere pensa al peggio, teme di aver sfondato la finestra. Lo spavento gli fa irrigidire i nervi, istintivamente chiude gli occhi, come per proteggersi dalla sua colpa. Quando li riapre nulla è cambiato: il gatto è ancora lì, fermo, immobile nella stessa posizione, con lo stesso sguardo.
Napoleone, assonnato, osserva quell’uomo agitarsi, muovere le mani.
Sente delle vibrazioni, nota come la bocca si apre e chiude ripetutamente. Allora, disinteressato, se ne va.
Brunello sta per tornare al suo lavoro quando sente girare le chiavi nella porta del negozio.
Una goccia di sudore gli scende sulla guancia destra.
-Brunello? Brunello? Ci sei? Sono tornata! Brunello?
Lui non dice niente. Abbassa lo sguardo. Stringe i pugni. Grugnisce. Poi sputa nell’impasto e inizia a mescolare.
Marla entra tutta sorridente.
-Hai visto Napoleone?
-No! Non ho visto nessuno!



Marla: i magnifici biscotti del panificio Centrale

Napoleone, infastidito da un rumore, apre l’occhio sinistro, vede Marla che ancora dorme, sontuosamente ricoperta dal piumino viola.
Con la zampina si pulisce il muso, scende dalla poltrona, appoggia prima le due zampe anteriori, seguite da un’ondata di grasso peloso e da un tonfo tondo. Ancora un po’ addormentato zigzaga costeggiando il letto.
Alza la testa e controlla che il suo posto si sia finalmente liberato. Sale sul letto, scivola sulle gambe della padrona fino ad arrivare al cospetto dei suoi grandi piedi e inizia un circolare movimento del bacino massaggiandole le piante.
-Leone, amore mio, dai, mettiti a letto...- borbotta amorevolmente Marla.
Il felino ubbidisce e risale zampettando. Il calore di quel piumino viola lo inebria.
Felice e beato arriva al cuscino di Brunello e ci si spaparanza sopra. Fissa quei lunghi capelli rossi e li tocca con la zampina, giocandoci.
-Sì, sì, anch’io, anch’io... dai, dormi leoncino di mamma- sussurra dolcemente Marla dopo essersi voltata verso il gattone.
Leone la lecca sul viso, si aspetta una risposta altrettanto affettuosa, ma lei non ricambia e si rituffa nel suo sonno.
Brunello sta scaricando della farina dal furgoncino del cugino Marco.
La luce che illumina i palazzi è bianca.
Marco gli passa i sacchi, lui li appoggia davanti alla porta del panificio. Ha accumulato un bel mucchio disposto su due file. I due sembrano non aver la minima intenzione di parlare.
La schiena del panettiere è un dolore unico.
Con i sacchi che lo ingobbiscono scivola dall’esterno all’interno guardando costantemente l’orologio. Frettoloso si carica dell’ultimo sacco rimasto. Gocce di sudore gli grondano dal viso.
Il furgoncino scompare dietro l’angolo.
La sveglia suona.
Marla con i capelli tutti arruffati si alza immediatamente senza esitazioni e con fare militaresco scende dal letto. Con passi pesanti si dirige verso il bagno, sbattendo dietro di sé la porta.
Quando la riapre, esce truccata, pettinata, perfettamente sistemata. Un vapore denso invade la camera da letto.
Si infila i pantaloni bianchi, il camice extralarge e, inarcandosi all'indietro, si sistema per bene il reggiseno. Entra nel piccolo ripostiglio adiacente al bagno, afferra un minuscolo aspirapolvere giallo. Sgrana gli occhi, zooma bene sulla parte dove dorme il marito, accende l’elettrodomestico e con cura inizia ad aspirare tutti i peli di gatto che riesce a vedere.
Dopo aver tolto le tracce della sua dormita con il felino, scende.
Il rinomato panificio Centrale è aperto.
Sente un rumore, s'acciglia, volta lo sguardo.
Dalla porta adiacente esce un ragazzo di colore.
Lo viviseziona con gli occhi.
-Hello madame!- dice lui.
Lei non risponde, con uno scatto si gira dall'altra parte schifata.

***

Il silenzio, al mattino, è talmente avvolgente che, camminando per le vie del centro storico, si ha la sensazione di fluttuare, di essere leggeri.
Capita, a volte, di guardare la gente che passeggia con la speranza di sentire il rumore dei passi. Invece non si alza nessun suono.
Le poche macchine, che lentamente passano vicino al Castello, sembrano farlo in maniera educata, discreta, per non farsi riconoscere. Rimangono nell’anonimato e scompaiono nella nebbia.
La nebbia, che in questo lembo di pianura, si presenta quotidianamente alla città, è il vestito di Ferrara, il suo profumo, la sua maschera inebriante.
In piccole cittadine come questa ci sono dinamiche comportamentali consolidate.
La gente è abitudinaria: ama fare le stesse cose alla stessa ora, andare negli stessi posti in giorni prestabiliti. La ritualità ha una sua dignità decennale.
Alto, magro e fibroso, pelle costantemente color bronzo che non accenna a sbiadire neppure con le nebbie più soffocanti, capelli brizzolati ma non troppo, il notaio Picco passeggia tranquillo.
Vestito con un completo blu a striscioline bianche, cucito su misura dal compagno di pesca pesante, il sarto armatore Carlo Camparini.
Cammina diritto come un pioppo, percorre velocemente la via, un passo dietro l’altro, muove la testa da destra a sinistra come la vedetta di un sottomarino in emersione.
Una volta individuato qualcuno che lo guarda ricambia l’attenzione con corposi saluti.
Se per la strada non c’è nessuno, sorride ai muri, al cielo, alla sua fortunata esistenza.
Arriva davanti al rinomato panificio Centrale, traccheggia un istante lasciando andare lo sguardo al di là della vetrina, infine, entra.
Marla è una donnona tutta d’un pezzo, stimabile sui novanta chili per un metro e sessanta. Il camice bianco riesce a malapena a contenere le spalle enormi. Il petto prorompente sembra dover uscire dal reggiseno in qualsiasi momento. Lunghi capelli rossi, cotonati, spumeggianti, curati, belli, bellissimi, le scivolano dietro la schiena.
Fra quel lussureggiante spettacolo, due guancione carnose e tonde. Le labbra, contratte agli angoli, formano una miriade di rughette addolcite da falsi sorrisi e briciole di torta Tenerina.
Un paio di sontuosi occhiali in oro, due ciondoli perlatobrillantissimi che penzolano dalle estremità della montatura nascondendole gli occhi. I clienti, sia per rispetto verso quella visione luccicante, sia per timore delle sue dimensioni, ciondolano silenziosamente in attesa del loro turno, seguendo il ticchettio dell’enorme orologio appeso dietro il bancone, regalo del Patriarca Fiammetto, padre defunto del marito.
Il campanello del panificio suona, il notaio Picco entra nel locale.
-Buongiorno notaio!- saluta Marla, mentre con una mano serve un cliente e con l’altra si aggiusta gli occhiali impercettibilmente fuori posto.
-Buongiorno Marla! Indaffarata come sempre...- risponde il notaio. Poi, educatamente, saluta con un cenno del capo il resto dei clienti.
Sorrisi di egual cordialità si aggrappano al suo gesto.
Il notaio Picco rimane anch’egli fermo, immobile, in attesa di essere servito. Lui, però, non ciondola. Disinvolto, si tende in una posizione di perfetta postura. Tenendo le mani in tasca segue ogni movimento della panettiera. Ogni tanto, guardandosi intorno, sorride cordiale.
La panettiera, intenta a esaudire le richieste dei clienti, lo scruta di sottecchi, muovendo le sopracciglia. Gli occhiali si alzano leggermente, provocando il timido tintinnare dei ciondoli perlati.
-Poi c’è lei signor notaio...- ammicca fra il rumore di perle.
Lui tira fuori la mano destra dalla tasca e la lascia passare fra i capelli, si gira, con due lunghi passi si avvicina alla vetrata per guardar fuori. Il sole è nascosto dietro al cielo grigio.
Qualche nuvola bianca è dispersa nell'immensa tela tersa. Puntuale arriva il rintocco delle campane del Duomo, mentre, figure ingobbite, si muovono lente nella via.
Una vecchietta equilibrista arranca con due sporte caricate sul manubrio della sua Graziella. Ha un foulard bianco che le avvolge la testa.
Un uomo, infagottato in un cappotino blu, pedala tenendo le mani conserte all'altezza dell'addome, fischietta con espressione anonima.
Un silenzioso via vai, privo di sguardi, mentre il suono metallico delle campane rimbomba ovunque.
-Mi dica notaio, cosa le servo?- urla Marla.
-Due coppie all’olio e un paio di etti di biscotti al cioccolato- risponde lui, tornando vicino al bancone.
-Sono per sua moglie?- chiede la panettiera, fissandolo e muovendo leggermente le spalle in avanti.
-No, no… per la mia piccola…
-Ah, ma è tornata? Quando?
-Da un paio di settimane...- Si ferma per un istante, gonfia il petto, continua:
-Sa, le avevano anche proposto di rimanere nella multinazionale presso la quale ha sviluppato il progetto della borsa di studio, ma lei ha rifiutato perché le manca Ferrara, preferisce venir a lavorare qui, nella sua città. Ha già tante richieste.
-Certo, è sempre stata bravissima! Allora mi permetta di darle anche un paio di questi biscottini all’anice che so che a sua figlia piacciono tanto... però le dica di venirmi a trovare.
Con la paletta ne prende una consistente manciata e li deposita con garbo dentro un sacchetto di carta.
Il luccichio dei suoi anelli s’infrange sul vetro del bancone.
-Adesso è lei a viziarla...- dice il notaio, sorridendo.
Marla scoppia in una risata poco composta che sembra un singhiozzo, ha la bocca spalancata, la lingua attaccata al palato.
Il notaio Picco e due signore ben vestite, da poco entrate, sorridono.
-Si figuri... no... ah, notaio, notaio...- riesce a dire la panettiera, combattendo contro la risata isterica, che si è impossessata di lei.
Una volta impacchettati i biscotti e sistemato il pane dentro al consueto cartoccio bianco, Marla consegna il tutto al Picco.
-Grazie mille Marla, gentile come sempre.
-È sempre il benvenuto e dica a sua figlia di passare che le devo far assaggiare delle cose buonissime che si è inventato Brunello.- Ha le mani sui fianchi e un’espressione di compiaciuta gentilezza, gli occhi gonfi.
-Ci conti… grazie ancora e arrivederci.- Si volta leggiadro ed esce lasciando, dietro di sé, una fresca scia di profumo e di pettegolezzi pronti per essere colti.
Quando la porta si chiude, Marla si lascia andare in un sospiro sospetto, prontamente camuffato da un'improvviso colpo di tosse.
-Il prossimo!- proclama austera.
Una signora con capello lungobiondoliscio ordina delle pagnotte al sesamo, poi domanda:
-Ma quanti anni ha la figlia del notaio?
-Venticinque, si è appena laureata e subito ha vinto una borsa di studio in Irlanda, è una brava ragazza.
-Ecco perché mi sembra di conoscerla... faceva il liceo con mio figlio... non nella stessa classe, ma ricordo che ai colloqui il notaio la accompagnava... sempre cosi elegante!
L’altra signora annuisce senza dire niente. Indossa due enormi occhiali a goccia che quasi le toccano le labbra e tiene salda fra le mani una sciccosa borsa di Armani.
-Sì, è sempre stata brava ed educata. Va pazza per i nostri biscotti al cioccolato, li ha sempre adorati, sin da piccolina... e deve vedere che bella ragazza che è diventata! E lei signora, li ha mai provati?- chiede Marla indicando la cesta contenete i biscotti.
Quella con la borsa di Armani può finalmente intervenire:
-Sono buonissimi! Io non li compro spesso perché... sa, per la linea...
-Ma che dici! Stai benissimo cosi!- conviene la bionda che adesso ha tirato fuori dalla sua borsetta un portamonete tutto luccicante. Sorride e aggiunge:
-Va beh, allora vada anche per i biscotti... mi tolga una curiosità: in cosa si è laureata la figlia del notaio?
-In Economia… quanti ne vuole di biscottini?
-Faccia due etti, grazie.
Le due donne escono.
Marla le saluta.
Dietro la tenda che divide il laboratorio dal panificio, Brunello, sbirciando, ha assistito a tutta la scena. Lui schifa il notaio Picco. Non è che sia geloso, del resto Marla sembra più un pugile che una donna, ma la questione è che quel damerino si prende troppe confidenze con sua moglie.
Chi penserà mai di essere… solo perché ha i soldi... mette una firma e son cinquecento euro... è facile così... io mi faccio il culo, mica guadagno i soldi a firmare... e poi perché le sorride? E se io sorridessi così a sua moglie? E sua figlia, altroché brava ragazza, ha la faccia da pompinara… chissà cosa combina quella lì.
-Brunello? Brunello?
-Sì?- Fa due passi indietro, sgombra l'espressione dai cattivi pensieri ed entra nel panificio.
-Hai visto cosa c’è davanti al negozio?
-Sì, avrei voluto spazzare stamattina, ma ho avuto problemi con il forno a ventilazione: è un periodo che mi dà noia.
Marla lo interrompe:
-Ancora quei filtri per fumare gli spinelli... io li denuncio quelli!
-Vedrai che uno di questi giorni viene la polizia. Basta avere pazienza e prima o poi le cose le sistemiamo.
Marla gli regala un sorriso impastato a occhi da cerbiatta, si gira e mentre sta per rientrare, con tono cordiale, dice:
-Dai che andiamo a mangiare.
Brunello abbassa la serranda del panificio, alza la testa. Grattandosi la pancia fissa la bandiera della pace. Strizza gli occhi, contrae le labbra, delle rughette gli circondano il naso. Gonfio di rancore rientra nel negozio.
Che animali, non si meritano di vivere qui. Perché affittano le case del centro storico agli studenti? E poi io mi chiedo cosa ne sanno loro della pace, della guerra. Sfaticati, ignoranti con quei vestiti da straccioni! No global di ‘sto cazzo! Tutti al rogo!
Un vecchietto passa in bici.
La bandiera arcobaleno svolazza delicatamente mossa dal debole vento.
Via Coromari cade in un silenzio impalpabile e neutro.



SINOSSI
Romanzo “La ballata del Tocororo ( o dei sud del mondo)”
Di Astolfi Enrico e Mazzoni Lorenzo


Una Odissea di oggi, una ballata scritta a quattro mani, un gioco letterario intriso di humor, avventura, azione, sangue e amore. Un’opera sorretta da più fili narrativi, capace di amalgamare e fondere strutture tipicamente cinematografiche ai crismi del romanzo.

“La ballata del Tocororo ( o dei sud del mondo)” è diviso in due Parti: Terra ed Acqua.

TERRA, amara e grottesca fotografia dell’Italia contemporanea, si regge su una struttura drammaturgica ad episodi paralleli. Lo snodarsi narrativo, raccontato al presente utilizza un linguaggio visivo, efficace ed immediato.
La vicenda inizia dalla fine del mondo cioè dal giorno in cui, improvvisamente, la terra si sgretola e gran parte della crosta terrestre viene inghiottita dall’acqua. In questo veloce capitolo d’introduzione, troviamo i due protagonisti (Pasquino e Fedrico) al culmine della loro tensione drammaturgica. L’inaspettata apocalisse taglia netta le loro azioni. I personaggi cedono all’avvento dell’inspiegabile, il plot si arresta.
La storia riprende con un flash back. Federico, giovane dal bell’aspetto, neolaureato in Scienze Naturali, per sfangare il lunario lavora come fattorino per l’eccentrico notaio Picco. Conosce Bernadette, figlia del datore di lavoro. Nello sfondo di una Ferrara claustrofobica, pettegola, maligna, borghese, si snoda la loro burrascosa e drammatica storia d’amore.
Altro miracolato dall’apocalisse è il vigile urbano Pasquino, quarantenne dal profilo bohemienne, laureato in Storia dell’Antichità, che dopo una serie di traumatici e grotteschi fallimenti decide di farla finita con il suo sogno: diventare uno scrittore. Ma anche per Pasquino, nel “nuovo mondo”, ci sarà una seconda vita e quella macchina da scrivere, che stava per vendere al mercatino dell’usato, sarà la compagna di un incredibile viaggio.
Tra le righe di Terra, compare, volteggia, osserva, uno strano uccello: il Tocororo, uccello sacro, simbolo di Cuba che inspiegabilmente si trova a Ferrara. Un mistero, quello del simpatico uccellino dal piumaggio dei colori della bandiera dell’isola, che solo alla fine verrà svelato.
Il vecchio mondo non c’è più, quel che resta è una distesa infinita d'acqua cristallina, in cui galleggia una sottile linea di terra.
ACQUA parte da qui: Ferrara e Bologna, trasformate dalla catastrofe in un’isola, rimaste senza elettricità e acqua corrente, sopravvivono con il baratto. In una situazione di delirio collettivo, di sbando, gli autori seminano i presupposti per l’odissea che taglierà il nuovo mondo.
Scorza Dura capo ultras del Livorno (la squadra, il giorno dell’apocalisse, gioca a Bologna. Tremila labronici sopravvivono e, con l’intenzione di ricreare un modello socialista, occupano un quartiere) fa un sogno: riportare il Tocororo a Fidel Castro. Riportarglielo per adempiere ad una profezia. Compiere quest’impresa impossibile per ricongiungere tutti i pezzi di quell’umanità dilaniata scampata alla catastrofe. Rimettere i tasselli al loro posto per riscrivere la storia, per unire i popoli sopravissuti, per riprovare a dare un senso al mondo. Impavido, convinto che, finalmente, un cambiamento sia possibile, raggiunge Ferrara per trovare il sacro pennuto caraibico.
Le congetture dell’ultrà livornese sembrano il delirio di un folle. Solo un inaspettato e plateale gesto dell’uccello cubano darà un senso al suo farneticare e inizio al viaggio verso Cuba.
Insieme a Pasquino e a Federico torna a Bologna per rafforzare la zattera che li porterà a destinazione.
Poi verso est, seguendo i venti, come antichi esploratori. L’imbarcazione batte la bandiera del Livorno calcio, sul fianco una scritta: “Erodoto”.
Pasquino, Federico, Scorza Dura, il Tocororo, la strana combriccola in balia del mare e di mille avventure.
Bologna, Santorini, Istambul, lembi di deserto, atolli abbandonati, Hurgada, isole sconosciute, le Maldive, quello che rimane della Thailandia, le isole di Tuvalu, fino alla battaglia finale di Caracas.
Durante questa odissea i tre incontrano pirati corrotti, guarnigioni di sanguinari curdi, clandestini trucidati, marines esaltati che bivaccano in una caserma nel deserto, spacciatori colombiani, amazzoni Thailandesi che torturano ex clienti e governano un atollo, personaggi dello spettacolo che si mangiano fra di loro, un sadico generale a capo di un esercito irregolare di skinhead, fasci di vecchia data, militari smarriti, ex poliziotti picchiatori, violentatori, immani mercenari, e un famosissimo cantautore italiano che ha perso la memoria ed è diventato un menestrello alcolista.
Senza pausa, per oltre trecento pagine, fino alla battaglia finale per un “mondo diverso”.
Una guerra campale, il conflitto di sempre. Il bene contro il male, i rimasugli dell’orrore del vecchio mondo contro le speranze di chi è deciso a non cedere ancora.
Il tocororo, il vero eroe, ci accompagnerà in questa divertente, scanzonata, irriverente ballata.