martedì 10 novembre 2009

SINOSSI E DUE NUOVI ESTRATTI. SUGGESTIONI ACQUATICHE.


SINOSSI
La ballata del tocororo (o della rivincita dei sud del mondo)
Un esemplare di tocororo, uccello sacro, simbolo di Cuba, solitamente stanziale, è stato avvistato inspiegabilmente a Ferrara. Federico, giovane ornitologo alle prese con una burrascosa e drammatica storia d’amore e Pasquino, vigile urbano che sogna di fare lo scrittore, vedranno la loro vita intrecciarsi a quella del colorato pennuto caraibico, proprio mentre il vecchio mondo sta per finire. Distrutto. Sommerso.
Ferrara è stata trasformata dalla catastrofe in un’isola, è rimasta senza elettricità e acqua corrente, e i suoi abitanti sopravvivono grazie al baratto. Incalzati da un capo ultra livornese che in sogno ha avuto la visione di riportare il tocororo a Fidel Castro per ricongiungere tutti i pezzi di quell’umanità dilaniata scampata alla catastrofe, Pasquino e Federico partono sulla zattera "Erodoto" verso est, seguendo i venti, come antichi esploratori.
Durante questa odissea i tre incontrano pirati corrotti, guarnigioni di sanguinari curdi, clandestini trucidati, marines esaltati che bivaccano in una caserma nel deserto, spacciatori colombiani, amazzoni tailandesi che torturano ex clienti e governano un atollo, personaggi dello spettacolo che si mangiano fra loro, un sadico generale a capo di un esercito irregolare di skinhead, fascisti di vecchia data, militari smarriti, ex poliziotti picchiatori, violentatori, mercenari tantrici, e un famosissimo cantautore italiano che ha perso la memoria ed è diventato un menestrello alcolista.
Una guerra campale, il conflitto di sempre. Il bene contro il male, i rimasugli dell’orrore del vecchio mondo contro le speranze di chi è deciso a non cedere ancora.... Visualizza altro
Una ballata scritta a quattro mani, un gioco letterario intriso di humor, avventura, azione, sangue e amore. Un’opera sorretta da più fili narrativi, capace di amalgamare e fondere strutture tipicamente cinematografiche ai crismi del romanzo.

I DUE NUOVI ESTRATTI. SUGGESTIONI ACQUATICHE FRAMMENTI DALLA SECONDA PARTE DELLA BALLATA.
(1)
Un caldo insopportabile avvolge il centro deserto. Piazza Trento Trieste, spoglia e afosa.
Due uomini si rifugiano sotto i portici dove una volta c’era il Mc Donald’s ormai diventato una specie di bettola-dormitorio gestita da una coppia di norvegesi, arrivati qui durante il Festival dei Buskers. Travolti dall’acqua, sono condannati a sopravvivere alla fine del mondo.
Lui è alto, magro, con i capelli gialli e lunghi. Ha occhi azzurri, intensi. Parla, senza interruzione, un italiano incerto. Blatera. Impreca.
La moglie, Mercedes, ha sempre un bicchiere di vino in mano, non si scompone mai, nasconde il viso dietro lunghi capelli scuri, fuma continuamente, ascolta il marito, sospira.
La bettola è sovraffollata. Al piano terra, ai lunghi tavoli, siedono decine di uomini sporchi e assonnati. Ogni tanto qualcuno si alza stancamente e va ad immergere il bicchiere in una grande bacinella di plastica, dove c'è una bevanda composta da diversi vini di scarsa qualità: un goccio di alcool puro, acqua piovana e zucchero. Non è un granché, ma stordisce e si può barattare con qualche sigaretta, un pezzo di pane. I norvegesi sono persone che si accontentano.
Alle pareti sono stati appesi poster di spiagge tropicali, un ritratto di Nelson Mandela, uno a china di Maradona. I poster coprono le vecchie insegne del Mc Donald’s: la costa di Cancun è affiancata dalla sagoma di un grande cheeseburgher.
In via Coromari dei bambini stanno prendendo a pallonate la saracinesca di un negozio d'abbigliamento abbandonato ormai da mesi. Dalla finestra sovrastante una vecchia si affaccia e inizia a gridare. Con la testa insaccata fra le spalle se ne vanno senza protestare. Arrivano dietro all’angolo, traccheggiano scambiandosi sguardi complici. Il rumore del richiudersi dei battenti scuote il silenzio. Sghignazzando tornano di gran carriera.
Riprendono il loro rumoroso gioco.
Folate d'aria fresca trasportano il gracchiare costante delle cicale e l’odore del mare.
Chissà quanto tempo è passato da quel tramonto apocalittico che ha trasformato per sempre il paesaggio terrestre dando all'acqua il predominio sulla terra? Da quanto il sole ed il caldo hanno sostituito la nebbia e il freddo? Da quanto mancano elettricità e acqua corrente?
Qualcuno afferma che, ormai, è passato un anno; altri puntano al rialzo.
Ognuno ama dire la sua anche se, negli androni dei palazzi, sotto gli ombrelloni delle spiagge che attorniano le Mura, mentre si tirano su le reti nel porticciolo di San Giorgio o ci si beve un bicchiere di vino in un qualche baracchino del centro, l'innegabile verità condivisa è che nessuno guarda più l'orologio.
Il tempo ha perso la sua consistenza.
Ormai, non si fa neppure caso al sole che, a volte, sembra non voler calare più o alla luna che, nelle svariate apparizioni rimane lassù a brillare sopra al mare blu intenso.
Lentamente ci si è abituati anche all'incredibile.
I ferraresi, dapprima, hanno assistito al sotterramento della loro pianura, poi hanno accolto il mare che ora, calmo, accarezza la cinta muraria.
Chi è sopravvissuto ha preso possesso delle case dei morti. Chi non ha avuto da mangiare ha saccheggiato i supermercati. Chi non ha avuto legna ha bruciato i mobili e i giornali delle edicole. Chi aveva qualche conto in sospeso l'ha prontamente saldato.
Sono successe tante cose, ma non è questo il momento di parlarne.
Da uomini stantii di pianura, contadini per vocazione, gli eredi della tradizione estense si sono rimboccati le maniche ed hanno iniziato la loro nuova vita, ognuno con un nuovo sogno, un nuovo desiderio.
Bramosi di rinascere nel nuovo mondo hanno fatto di necessità virtù.
Molti si sono costruiti rudimentali catapecchie nautiche e si sono dati alla pesca.
Chi, invece, ha recuperato le imbarcazioni ormeggiate nella Darsena ed è partito nel vano tentativo di essere ricordato come il nuovo Marco Polo, si è reso conto che intorno a Ferrara c'è solo mare, solo ed esclusivamente acqua, un infinito oceano di dubbi.
A dire il vero un altro centro di rilievo salvatosi dall'inondazione c'è: Bologna.
Ma di quel che è rimasto dell'ex capoluogo emiliano vi dirò poi.
Adesso concentriamoci su Ferrara.
Il caldo tropicale, prepotentemente aggiuntosi alla lista degli eventi inspiegabili, ha trasformato velocemente la vegetazione della città.
Il verde spontaneo cresce ovunque.
Le acque sono rivestite di mangrovie, mentre le rive sono ricoperte di arbusti sempre verdi. Sono spuntate miracolosamente piante di mirto e di corbezzolo, anemone, fiammole, ranuncole asiatiche, peonie, papaveri, un mix lussureggiante di rosso, giallo, bianco, viola. Nei paraggi del parco Massari alcune palme da dattero. Timo e cisto spuntano nelle crepe dei marciapiedi, nei solchi lasciati dalla fine del mondo.
Ferrara, oasi pacifica, brulica di porticcioli, di mercati all'aperto, di vegetazione tropicale, di luoghi dediti allo scambio di merci, di cittadini che, ormai perso qualsiasi rapporto con il denaro, vivono barattando di tutto, dal pesce essiccato, alla frutta, ai semi, al pane, alle spezie.
Antichi centri di aggregazione come piazza Ariostea e i bastioni delle Mura sono stati rivalutati e hanno ripreso la loro originaria funzione di spazio collettivo.
Il fatto che i Buskers siano rimasti qui, costretti dall'inondazione, ha trasformato le notti ferraresi nel palcoscenico ideale per kermesse musicali infinite, di spettacoli teatrali, di performance varie.
Ferrara, superato il lutto, sembra essere diventata una cittadina felice, rinata.
Nel rione di San Giorgio parecchie case sono state imbiancate per far filtrare meno i raggi del sole.
I balconi sono adorni di licheni, rose, cantanuche, caerule dall'ammaliante colore azzurro, gladioli porpora e narcisi. L'aria è viziata dall'odore intenso di pesce alla griglia.
Dalla corte di un palazzo dilaga un'armoniosa melodia nord-africana accompagnata da parole strozzate, trattenute, e dal soffice rimbombo di alcuni tamburelli.
Corso della Giovecca brulica di bancarelle di pannocchie, di pollo cotto alla brace e insaporito con succo d'arancia, di pane fatto in casa e di improvvisati gazebo che garantiscono ombra ai bancali colmi di marmellate di pomodoro, fragola, melone.
Negli androni delle case ci si ritrova per chiacchierare, per giocare a carte, a dadi, o per sonnecchiare al riparo dal sole.
Decine di barchette pescano vicino all'atollo di San Giorgio, dove il campanile della chiesa emerge fra acque cristalline e dove nuotano pesci argentati e tartarughe giganti.
A bordo di un'esile imbarcazione che oscilla piegandosi sul lato destro, il vecchio Saverio Arnolfi, con un gesto ampio delle braccia, fa roteare in aria un amo.
All'improvviso, con un colpo secco, lo scaglia verso l'azzurro. Il silenzio viene tagliato, per un secondo, da un suono stridulo. Poi un impercettibile tonfo, l’acqua increspata. Dei piccoli pesci dal colore grigio bruno si dileguano velocissimi, spaventati dall’inaspettata intrusione.
Il sole illumina la loro scomposta fuga.
Il partigiano è in compagnia di due giovani sgherri dalla pelle olivastra che, a bordo della minuscola barca, si muovono con disinvoltura. Uno dei pesci perde l'orientamento e si avvicina alla prua, il partigiano lo nota. Cede la canna da pesca a uno dei suoi compagni, poi quatto quatto si avvicina a quella minuscola figura che vaga solitaria a pelo d'acqua. Sgrana gli occhi. Un'espressione di sconforto gli si dipinge sul volto.
Sconfitto gira la testa verso l'esigua ciurma, in un'evidente richiesta di aiuto. Con uno scatto gli si affianca Primo, il più vecchio dei due, si appoggia leggiadro al vecchio e si sporge verso l'acqua. Sorride, soddisfatto, poi afferma sottovoce e con fare confidenziale:
-È un ciclide dalla bocca di fuoco.
-E come lo riconosci?
-Vedi la parte inferiore della bocca e del torace? Sono rossi e ha una macchia scura sia sull'operacolo che sui lati.
-Ma Primo, tu ne sai una più del diavolo! Come fai a ricordarti tutte queste cose?
-Passione! Sono nato in mare.
-Sì, va bene, ma fino ad un anno fa non è che a Comacchio ci fossero dei pesci del genere!
Primo diventa serio, gli occhi gli s'increspano, il viso gli si allunga in una smorfia che sembra quella di un bambino qualche secondo prima delle lacrime.
-Scusa, mi dimentico sempre di…- balbetta il partigiano Arnolfi.
-No, non fa niente… è che quando sento quel nome mi viene da piangere.
-Ti capisco, anche io ho perso mio figlio e della mia famiglia mi è rimasto solo un nipote, devi essere forte!
-Sì, lo so. Ma mi mancano- conclude Primo.
I due si abbracciano, poi il comacchiese aggiunge:
-Se vuoi ti dico anche qualcosina in più! Il ciclide dalla bocca di fuoco bazzica nei corsi d'acqua del Guatemala e dello Yucantan.
-Perbacco! Ne hanno fatta di strada questi pesciolini!
-Sì, direi!
-Beh, allora lasciamo stare queste bestiole che, dopo un viaggio così lungo, avranno voglia di farsi i fatti loro!
L'altro ragazzo senza scomporsi fa su l'amo e infila i remi nei loro scalmi.
Saverio è seduto a prua, ciondola da destra a sinistra, ai suoi piedi il sacchetto nero ove suole sistemare il pescato.
Davanti, la torre di San Giorgio, le imponenti Mura.
I due ragazzi remano energicamente.
I colori dei panni appesi, delle porte, delle case si fanno sempre più riconoscibili.
Dietro alla barca, una smussata linea retta taglia dolcemente la piattezza argentea che li divide dalla terra ferma.
Arrivati all'attracco di via Porta Mare, Saverio, con un nodo, assicura la sua barchetta a un enorme pezzo di metallo verde ormai scrostato e arrugginito, dopodiché, si rialza.
La luce del sole lo acceca per un istante. Infastidito si strofina gli occhi poi, con aria serena, fissa, come ogni giorno, l'orizzonte calmo.
Immobile, avvolto nella sua silenziosa quotidianità.
Sorride, non avrebbe mai pensato che sarebbe riuscito a coronare il suo sogno più recondito, che il desiderio di vivere a stretto contatto con il mare sarebbe diventato realtà. Lui, amante dei classici del mare, che da sempre portava invidia ai Capitani coraggiosi e a Lord Jim, adesso si trova a vivere come loro, a provare le loro stesse sensazioni, a pensare come loro, ad essere un lupo di mare.
Ex combattente partigiano ora astuto marinaio… che evoluzione.
Il cielo è azzurro, qua e là alcune nuvole immobili tagliate, di continuo, da gabbiani che volteggiano liberi.
L'aria calda gli accarezza il volto.
Sembra ringiovanito, ha la pelle olivastra e i capelli leggermente lunghi tirati all'indietro. Con aria sicura si tiene ben saldo alla stampella, muove passi netti, chirurgici.
Tra le barche ormeggiate nel porticciolo, ne nota una che non aveva mai visto: una zattera di legno di medie dimensioni battente una strana e sgualcita bandiera color amaranto.
Rimane imbambolato a studiarla: è composta essenzialmente da una base di tronchi legati fra loro da possenti corde, da un albero maestro alto almeno tre metri e da una piccola e graziosa cambusa coperta da fascette di bambù e da frasche.
All’interno, attaccato sopra alla provvisoria e scarna cucina, un poster di Che Guevara.
Il vento trasporta delle urla che prendono la consistenza di una cantilena costante.
Sulla via Porta Mare c’è il mercato del pesce.
Primo gli tocca la spalla. Saverio lancia un'ultima occhiata verso la cima dell'albero. Un soffio di vento smuove il vessillo amaranto. Nella speranza di carpire qualche indizio in più, si acciglia, sgrana gli occhi, riesce a distinguere uno strano simbolo: delle lettere che si attorcigliano, sembra uno stemma di una squadra di calcio.
Boh, chissà! Comunque! S'incammina verso il mercato.
Si mischiano al caos. Lui nel mezzo, la sua ciurma che lo scorta.
Grida acute, due donne che s’adoperano dietro ad un bancale pieno di frutta secca, un mendicante è appoggiato ad un sacco pieno di granturco, odori intensi, un vecchietto osserva inebetito alcuni fiori blu, sospira, poi sorride soddisfatto, si fruga nelle tasche dei pantaloni ansioso di portare con sé quell’incredibile regalo della natura.
Sgomitano fra la calca, avanzano fra la ressa in subbuglio. Un uomo con due denti d’oro sgranocchia una carruba, poi starnutisce, Saverio evita gli schizzi di saliva.
Arrivano sino al banco di una baracca gestita da un minuto cingalese.
Saverio butta sul pianale il sacco nero. Il cingalese lo apre ed inizia ad estrarre dei merluzzi di media grandezza, li conta soddisfatto tenendo lo sguardo fisso su i tre. Ha due enormi occhi neri e una pancia che sembra un cocomero.
-Sette buoni e due malati- sentenzia.
-Sono tutti buoni, fammeli vedere i malati!- controbatte Saverio.
-Questo ha lische molto scure, non è buono e questo anche.
-Tutti i giorni ti inventi una malattia nuova, non ci provare Masos! Ormai lo abbiamo capito il tuo giochetto! Dacci quello che ci spetta e falla finita!
Il cingalese esita un secondo, si aggiusta il colletto della camicia color ocra, lascia che due gocce di sudore gli arrivino sino al mento poi si china, scomparendo sotto il bancale.
Quando ricompare ha in mano tre sacchetti di carta e una bottiglia di vetro, sorridendo:
-Duecento grammi di riso, sei stecche di cannella, cento grammi di fagioli per uno e una bottiglia di vino da dividere.
I tre si guardano, poi, con un cenno del capo, acconsentono.
Felici per l'affare concluso si portano nei paraggi dell'ex bar Stella ora diventato una delle bettole di porto più battute.
Le pareti esterne sono quasi interamente coperte da graffiti che ritraggono i nuovi simboli di Ferrara: il mare azzurro che avvolge la cinta muraria ricoperta di fiori; il Castello addormentato fra le palme, i teloni tirati da un estremo all'altro delle strette vie del centro storico per assicurare ombra a tutti e il tocororo, appollaiato sul ramo della secolare quercia da sempre al lato della casa del Boia, che guarda verso est.
All'interno del locale, sistemati malamente e abbandonati al loro destino, vecchi sgabelli e tavoli di legno che ormai hanno perso colore. Il pavimento è coperto di pezzi di pane, cicche di sigarette, noccioli d'oliva, macchie d'unto.
Il tetto è sorretto da travi di ferro verde dall'aria instabile. Le pareti sono zeppe di sgualciti poster di film degli anni ’80, della Madonna, della vecchia Ferrara immersa nella nebbia e del Capitano Acab con la sua pipa in bocca. Sui tavoli, su claudicanti mensole, sono appoggiate candele e vecchi candelabri, unica garanzia di luce quando il sole cala nel mare-oceano.
Dietro al bancone un ometto dai lineamenti vagamente simili a quelli del sopra citato eroe dei mari si sta fumando un interminabile sigaro. Beve un sorso della sua birra sgasata, una porcheria di fabbricazione domestica.
Intorno, avventori che giocano a domino, altri, stretti in cerchio, cantano canzoni battendo le mani a ritmo serrato.
Saverio baratta con il barista le sei stecche di cannella per un piatto d'insalata di pomodori e mezza pagnotta. I suoi compagni riempiono tre bicchieri di vino.
Due energumeni stanno litigando a voce alta vicino alla porta d’ingresso, all'improvviso uno di questi estrae la pistola e la punta verso l'antagonista che, sconfortato, arretra.
L'uomo che impugna l'arma si muove sicuro, ha gli occhi iniettati d'odio.
Silenzio.
Nel bar tutti osservano la scena senza intervenire.
Saverio appoggia il piatto di pomodori al bancone e rimane immobile.
L'uomo punta la canna della pistola alla tempia dell'altro, si avvicina.
Gli sussurra qualcosa.
Qualche goccia di sudore compare sul viso dell'aggredito che deglutisce vistosamente e infine gira la testa facendo un cenno in direzione di Saverio.
L'energumeno armato lo squadra.
Muove i primi passi verso il vecchio Arnolfi.
Il partigiano, impietrito, non riesce a far altro che afferrare la sua stampella.
Quando ormai sono vicinissimi, Saverio nota che sulla maglietta dello sconosciuto c'è impresso lo stesso simbolo che aveva intravisto sulla bandiera di quella misteriosa zattera.

(2)
Brunello, immobile di fronte alla sua, un tempo, remunerativa attività, guarda le vetrate infrante del panificio. Incapace di rassegnarsi al terribile scherzetto che la crosta terrestre ha fatto al genere umano.
Un topo rosicchia un cesto vuoto.
All'interno del panificio c'è solo polvere, bancali distrutti, macchinari arrugginiti. Da efficiente e stimato laboratorio artigianale ora è un ammasso di ruggine, muffa, odore stantio.
Guarda passare due ragazzini a torso nudo. Stanno blaterando qualcosa sulla folla che si è accalcata alla casa del Boia. Si trascinano dietro un carretto pieno di cartoni e cianfrusaglie arrugginite. Li guarda con odio. I ragazzini gli fanno montare il sangue alla testa. Erano soprattutto adolescenti i mostri che nei giorni dopo l'inondazione hanno saccheggiato il panificio, lo hanno gettato a terra e preso a calci mentre cercava di difendere le pagnotte e le coppie di pane dalla fame della folla. C'era anche quel negretto. Si infilava il pane nelle tasche e sorrideva. Brunello ricorda quelle facce odiose, boriose. Vede le facce che mordicchiano il pane.
Sputa di nuovo in terra ed entra nel locale. Dei moldavi cenciosi dormono a terra. Ormai non può più fare niente per difendere la sua proprietà. A Ferrara l'ordine è annegato insieme alla sua periferia. L'anarchia e il disordine fomentano e fomentano. Ferrara come Gomorra. Il panettiere non può più tollerarlo e la sua rabbia si trasforma in silenzio, sputi, sguardi rancorosi e pieni di violenza.
Nella testa di Brunello è in atto una trasformazione interiore. Non c'è più Marla, scomparsa nel nulla. Non c'è più il gatto. Sorride a pensare a quello stupido quadrupede. L'unica cosa che ha apprezzato del disordine è stato vedere quel gattaccio sgozzato e fatto arrosto. Era stato l'unico momento in cui si era donato alla folla; aveva anche mangiato una coscia di Napoleone e ne aveva riso.
Cambiare, andare, allontanarsi da questo terribile inferno anarchico.
Questi sono i suoi pensieri.
Qualcuno gli ha riferito che a Bologna è rimasto l’ordine. Quel vice questore Della Vittoria che riempiva i notiziari locali con le sue gesta, con gli sgomberi e le retate, è ancora lì, nel capoluogo felsineo.
Se lo immagina: alto, fiero nello sguardo, sicuro e rassicurante nelle movenze e soprattutto lontano anni luce dalla vigliaccheria dimostrata dalla polizia locale che si era subito arresa al disordine.
Ferrara era facile da controllare quando la tranquillità del benessere teneva tutti chiusi in casa e per la città vigeva una sorta di omertosa sottomissione nei confronti della polizia.
Adesso sì che ci vorrebbe il polso duro, ma evidentemente, nei paraggi, non c'è nessuno all'altezza.
A Bologna, invece, quel vice-questore e il suo personale esercito resistono, l'ordine è ancora possibile.
Un uomo così non può scappare... non deve!
Brunello guarda ancora i moldavi dormire.
Un uomo come me può essere utile all'ordine. Obbedire e combattere. Questo mi ha detto il Duce, pensa, mentre infila la mano nello zaino a tracolla.
Trova il medaglione, lo afferra, con un gesto deciso lo alza, tenendolo fra l’indice ed il pollice, come fanno gli arbitri dopo aver estratto il cartellino.
Si avvicina a un moldavo.
Non lo ammonisce, espulsione diretta con un bel calcio nello stomaco. Il poveretto si alza in piedi gridando, l’ex panettiere senza indugi gli assesta una ginocchiata nelle palle.
Disgustato, sputa in terra e esce dal locale.
Rimette in tasca il suo inseparabile medaglione e inizia a marciare, verso sud, verso l'ordine, verso quel suo vecchio mondo che tanto rivuole.
Davanti, il sole che tramonta gloriosamente.

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